Cerca
Close this search box.

Cosa vuol dire che i cristiani in politica sono chiamati alla comunione

Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Email
Stampa
rubens_tributo-1140x853

Camisasca ai cattolici impegnati in politica: «Dovete lavorare assieme, anche con tutta la precarietà possibile, affinché nel tempo si esprima quella unità che viene prima di ogni opzione».

Quella che segue è la relazione dal titolo “La comunione come inizio del rinnovamento del mondo: è possibile una fraternità cristiana per chi fa politica?”, tenuta recentemente da monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, a un gruppo di cattolici impegnati a vari livelli in politica.

Introduzione

Vorrei che non pregassimo per abitudine. Forse oggi non c’è più questo rischio, perché siamo disabituati a pregare. Noi preghiamo perché la preghiera fa parte della nostra attività politica. Essa dà un fondamento serio e vero alla vostra vita. Il fondamento della vostra vita non è la politica. Se la speranza fosse la politica voi sareste più miseri di tutti gli altri. Perché gli altri non hanno incontrato il fondamento. Voi sì. Il fondamento, la ragione della vostra vita è Cristo, ed è per questo che preghiamo. Per quella necessaria distanza critica dalla vostra attività che è indispensabile per ogni cristiano.

L’imprenditore che spera soltanto dal suo successo imprenditoriale, un marito che spera solo da sua moglie, o una moglie che spera solo da suo marito… Per dare valore e peso alla vita occorre che riconosciamo che il fondamento non viene da fattori materiali. Solo se esso non viene dall’“al di qua” voi siete liberi, liberi nel successo e nella sconfitta, nella fatica e nella gioia, siete liberi.

Qual è la cosa più importante per una persona che pensa di impegnarsi nell’attività politico-sociale? Essere libera dal risultato. L’uomo è veramente tale quando gli avvenimenti del mondo non lo scalfiscono del tutto. Abbiamo bisogno di questo. Forse nessuno come sant’Ambrogio ha espresso nei suoi scritti e nelle sue omelie questa statura. La libertà che viene solo dalla fede: ubi fides ibi libertas.

La misura della nostra vita non è data dal successo delle nostre azioni; anche se esse dovessero toccarci profondamente, magari anche mandarci in carcere. Ecco perché preghiamo. Se non lo facciamo con questa profondità, allora è semplicemente una ritualità che non ci aiuterà, che non ci sosterrà. Ci sosterrà nei giorni in cui la brezza è leggera, ma nei giorni di vento, nei giorni di tempesta, occorrono radici ben più profonde. Come sanno gli alberi delle isole. Provate ad andare a Lampedusa: vedrete che gli alberi portati dal vento pendono verso il basso, ma resistono perché hanno le radici.

1. Il fondamento: la comunione

Se noi vogliamo essere portatori della novità cristiana anche nell’azione politica, dobbiamo sapere chi siamo. La politica per natura è mediativa, ma per operare un dialogo intelligente occorre sapere chi si è e che cosa si porta. Mentre l’azione politica tende a farci dimenticare chi siamo nella necessità di un dialogo. Tende a far diluire le identità nelle appartenenze ideologiche.

Credo che realmente valga la pena di svolgere un lavoro comune fra di noi, se esso non ripete l’errore delle scuole di politica tra credenti in cui si chiedeva ai partecipanti di partire dalla politica. L’esperienza più deludente che io ho vissuto nella mia diocesi è stata quella di vedere che cristiani, appartenenti alla stessa comunità, non erano in grado di parlarsi perché la loro appartenenza politica era più forte della loro appartenenza ecclesiale. Si scomunicavano a vicenda.

Sono fermamente convinto che una delle ragioni più gravi della polarizzazione tremenda oggi in atto nella Chiesa è la perdita dell’esperienza reale della fede. La fede è ridotta ad un insieme di valori che si contrappongono ad altri. L’attività politica è per sua natura divisiva, perché è sostegno di interessi legittimi di fronte ad altri interessi. Il mio intento è di aiutare i cristiani a scoprire quel fondamento che permette loro di vivere nell’agone politico una presenza che sia incisiva, un lavoro comune tra coloro che hanno la stessa fede, anche se militano in partiti differenti.

Ho messo la parola comunione al vertice di questa mia riflessione, perché penso che sia questo ciò che si è smarrito nella Chiesa e perciò anche nella società. Se noi guardiamo il primo Patto, quello che chiamiamo Antico Testamento, possiamo notare una cosa: quando Dio chiama Abramo, ma poi anche Mosè e gli altri, chiama sempre dei singoli e li chiama per nome, ma per essere l’inizio di un popolo. Nella storia della Alleanza antica e nuova esiste, permane questa duplice polarità che non è mai risolvibile tra persona e comunità. La persona non esiste senza la comunità e la comunità non esiste senza la persona.

Tutti oggi parlano del “noi”, ma che cos’è questo “noi”? Che rapporto ha con la persona? Si vuole superare l’individualismo attraverso l’affermazione del “noi”. Ma dobbiamo renderci conto che non si può superare l’individualismo se non si riscopre il significato della persona. Il “noi” è l’antidoto all’individualismo, ma trova il suo fondamento nella persona.

Secondo Chesterton le menzogne sono sempre delle verità estrapolate. Oggi per esempio nel tema dei diritti questo è di una evidenza assoluta. Chi ardirebbe oggi dire che nasciamo con diritti diversi? È giusto, giustissimo. Nasciamo con uguali diritti, ma non nasciamo uguali. Questa è la grande confusione: abbiamo uguali diritti, ma non siamo uguali. Non siamo uguali non perché uno è meno meritorio dell’altro, meno intelligente dell’altro. Non siamo uguali perché la bellezza dell’unità è la pluriformità. Non nasciamo uguali: fortunatamente io sono italiano e tu sei americano, io sono bianco e tu sei nero, io sono uomo e tu sei donna. Non nasciamo uguali perché ciascuno ha i suoi doni e l’unità della storia avviene nella pluriformità.

Fin dall’inizio Dio chiama attraverso dei singoli, ma per costituire un popolo. Dio non ci salva singolarmente: Dio ci salva assieme, ci salva mettendoci in un popolo. Ecco perché il tema della comunione è il tema originario e originale per ogni cristiano.

Perché Dio vuole salvarci creando un popolo? Perché il Dio cristiano è trinitario, il Dio cristiano è comunione di persone. Se la salvezza consiste nel partecipare alla sua vita, tutto ciò non può avvenire che come comunione di persone. La comunione è il disegno originario di Dio che si è infranto per la disubbidienza di Adamo, ma che Dio testardamente ha ripreso continuamente.

Dio ha scelto un popolo testardo perché voleva dimostrare che Lui è più testardo ancora. Dio ricomincia sempre, e ricomincia sempre ricreando un popolo. E Gesù lo sapeva bene. Ne ha chiamati dodici perché dodici erano le tribù di Israele. Se non partiamo da qui, se non ci immergiamo in questa realtà, non possiamo rispondere alla domanda che abbiamo posto come titolo a questa mia relazione.

Cos’è la comunione? È l’esperienza originaria. Quando non c’era nulla c’era la comunione. Quando non c’era nulla, quando non c’era l’universo, l’uomo, i cieli, il buio e la luce, c’era la comunione. E in tutto ciò che ha creato, Dio ha impresso questo sigillo: la comunione. Perciò ogni uomo la cerca, anche se non sa cosa cerca. Potrei dire che anche ogni animale e pianta cerca questo. Lo dice san Paolo nella Lettera ai romani: «Tutta la creazione attende e geme il compimento» (Rm 8,22-25).

L’esperienza originaria è l’esperienza della comunione, non della divisione. Quest’ultima è un’esperienza seconda, segnata dal nostro limite umano e dal nostro peccato, la divisione nella fede. L’unità si riconosce come qualcosa che ci è regalata all’inizio, la comunione è un dono di inizio, è il Battesimo. Noi non lo sappiamo più.

Tutt’al più i più volonterosi pensano che la comunione venga alla fine: dopo molto dialogo, sacrificio… lì c’è la comunione. No. La comunione non ci sarà mai alla fine se non è all’inizio. Essa come ho detto è un dono: siamo una cosa sola in Cristo Gesù. Andatevi a leggere le lettere di san Paolo ai Galati o ai Corinti. Se non partiamo con questo piede non faremo nessun passo.

Ma i cristiani non sanno più che la comunione è un dono dell’inizio. Non sanno più cosa sia il Battesimo che hanno ricevuto. Questo inizio a causa del nostro peccato è stato continuamente messo in discussione da noi. La comunione, cuor uno e anima una, è frutto di un lavoro della nostra libertà. E quindi è giusto dire anche che la comunione è alla fine e che il tempo ci è dato per questo lavoro.

Quando parlo a voi non sto parlando del partito unico o del partito cristiano, sto parlando a cristiani in politica che devono sapere che la loro comunione è più forte di ogni opzione, e che nello stesso tempo in ragione di questa unità che viene prima devono lavorare assieme, anche con tutta la precarietà possibile affinché nel tempo si esprima questa unità, con pazienza, sopportazione reciproca e reciproco perdono.

Come possiamo definire questa comunione? A me sono venute in mente due immagini: la roccia e la luce. L’Antico Testamento ha tante altre parole per esprimere la comunione: per esempio Alleanza. Nel Nuovo Testamento anche Gesù ha una pluralità di parole, per esempio gregge, pecora e pastore, la via. Perché dunque parlo di roccia e di luce?

Innanzitutto la comunione è una roccia, è il punto su cui possiamo poggiare i piedi. Per il mondo ebraico la fede è innanzitutto roccia, stabilità. Essa è espressa dalla parola “amen”: si nota la radice indoeuropea “mn”, da cui deriva anche la parola “rimanere” in italiano o la parola “ménein” in greco («se non rimarrete» è ripetuto 10 volte nei primi 10 versetti nel capitolo 15 di Vangelo di san Giovanni). La roccia è l’idea più importante per gli ebrei, il fondamento.

Se poggio sulla roccia non sono più abbandonato alle acque che mi giungono fino al collo, non sono più sulle sabbie mobili in cui sto sprofondando. Se noi non facciamo esperienza di questo, come possiamo pensare a una fraternità in politica? Parlo di fraternità in politica perché qui siamo tra politici, ma potrei dire anche fraternità fra avvocati, fra medici, fra amici. È esattamente lo stesso problema. La politica poi magari ha delle tentazioni e delle difficoltà in più, ma la radice è esattamente la stessa: per una famiglia, nei rapporti fra genitori e i figli… La roccia è appartenenza a un popolo, a una storia. Se non abbiamo questa consapevolezza che ci stiamo a fare nel mondo? Che volto abbiamo nel mondo, se non è il popolo a cui apparteniamo?

Per i greci invece la fede è soprattutto luce. San Giovanni e san Paolo assumono molto questa immagine della luce nei loro scritti. Luce, quindi verità. La luce dà la speranza di poter penetrare nel senso delle cose. La verità è bene, la comunione nella verità è bene. La luce ci rivela la possibilità di conoscere il bene come verità, come dono dello Spirito, come sapienza che guida la vita. Questo è il fondamento che ho voluto dirvi oggi.

2. La vocazione

Adesso voglio proseguire. La fede vi ha collocato in un popolo che si chiama Chiesa. Essa si specifica per ciascuno di voi in appartenenze diverse: a un movimento, a una parrocchia, a una comunità, a un cammino. Ma esse sono le specificazioni necessarie di un fondamento che rimane tale.

Paolo si arrabbia con la comunità di Corinto perché uno diceva «sono di Paolo», l’altro «sono di Apollo». Sentivano questo loro essere di Paolo o di Apollo come contrapposizioni, come motivo di divisione. E Paolo risponde: va bene, allora io sono di Cristo. Così uno è di Cl, uno è del Cammino neocatecumenale, uno è dell’Opus Dei, uno è della parrocchia. È bello e anzi è necessario questo, purché tutto sia essere di Cristo.

La fede ci colloca in un popolo con un volto personale che si chiama vocazione. È come se la comunità cristiana fosse alimentata da un fuoco che ha due vertici: la persona e la comunità, che si richiamano tra loro. Vocazione quindi è la seconda parola, dopo comunione, su cui mi voglio soffermare.

Non esiste comunione se non per una vocazione. Nella comunione noi scopriamo che ciascuno ha un posto. Quando Jahvè o quando Gesù chiamano nell’Antico o nel Nuovo Testamento, danno un nome. «Finora ti chiamavi Abramo, adesso sarai Abraham». «Finora ti chiamavi Simone, adesso sarai Pietra». «Finora ti chiamavi Saulo, adesso Paolo». Questa magia del nome in cui l’uomo semita identificava il senso più profondo dell’altro e di se stesso, ci dice che non esiste comunione senza vocazione. Per questo ho detto che non esiste comunità senza persona.

Ciascuno di noi nella comunione ha un compito. È per questo che parlo a voi come persone chiamate a un compito politico, al servizio della polis. Voi, in un modo o nell’altro, avvertite che Cristo vi chiama a questo. Dio mette dentro di noi degli interessi, per aiutarci nel cammino verso il riconoscimento della nostra vocazione, anzi delle nostre vocazioni. Ciascuno ha una pluralità di vocazioni che devono essere ordinate tra loro: la famiglia, il lavoro, una specifica professione, una passione. È triste lavorare senza scoprire che ogni lavoro è una vocazione, anche se talvolta essa può essere riconosciuta con allegria e talvolta invece con dolore. In quest’ultimo caso dobbiamo offrire e perciò riscattare ciò che, altrimenti, sarebbe soltanto subìto.

Vocazione è essere chiamati a testimoniare Cristo come unico scopo della vita. Lo ripeto: lo scopo della vostra vita non è la politica, come dicevo prima introducendo la preghiera. Lo scopo della vostra vita è testimoniare Cristo. Il progetto lo stabilisce Dio, e questo ci rende liberi. Uno degli aspetti più tragici e quasi comici del nostro tempo è la dipendenza dai like e dai follower, dal successo comunque lo si chiami. Viviamo del riconoscimento degli altri. È la forma di schiavitù più terribile che l’uomo possa vivere.

Si può testimoniare Cristo solo se lo si è incontrato. Se Cristo è un’idea della vita, un codice morale (tutte cose giuste, ma questo non è ancora averlo incontrato), non possiamo essere suoi testimoni. Per questo è fondamentale la comunione, perché incontrare Cristo vuol dire incontrare la comunione di coloro che credono in lui, per cui lui è la roccia.

La comunione riguarda tutti i battezzati, ma io oggi voglio parlare con voi di fraternità. La fraternità è un riconoscimento che nasce dalla comunione. Vive di vicinanza. Tutti nasciamo dallo stesso Dio, perciò siamo tutti fratelli, ma se vogliamo vivere una fraternità dobbiamo riconoscere una vicinanza. Nella vicinanza si riscopre il gusto della comunione, rinasce un popolo, e all’interno di quel popolo può rinascere anche un impegno politico.

Qual è stata la forza di De Gasperi? Egli aveva alle spalle l’Azione cattolica. Non tanto la forza dell’Azione cattolica, ma l’esperienza dell’Azione cattolica. Nel Trentino aveva vissuto e assimilato una tradizione di popolo. Lo possiamo vedere nelle lettere che ha scritto alla moglie e alla figlia in monastero, nei libri di Maria Romana. De Gasperi era consapevole di lavorare per un popolo, anche quando è stato abbandonato nella solitudine dai suoi amici.

3. La fraternità

Che cosa vuol dire specificamente fraternità? La fraternità è un gruppo di persone che riconoscono di essere messe assieme da Cristo, e non semplicemente dalla carne e dal sangue. Riconoscersi assieme per Cristo vuol dire avere uno sguardo diverso sull’altro. Ci possono essere fra di noi divisioni, gelosie, invidie (questo accade in tutte le comunità, perché non siamo angeli). Una comunità è fatta di peccatori che vogliono chiedere a Dio la conversione del cuore. Il vero problema delle comunità cristiane non sono gli scandali. Anche Gesù ha detto: «È inevitabile che ci siano gli scandali» (Mt 18,6). Il vero problema è che manca il cuore contrito. Si vede nell’altro un nemico e non un fratello, cioè un sacramento di Cristo.

Il fratello è posto al mio fianco per aiutarmi nella sequela di Cristo. Ricordiamo l’episodio del Vangelo a Cesarea di Filippi (Mt 16,13-23). Gesù dice a Pietro: «Tu sei la pietra su cui fonderò la mia comunità. Però sappiate che il Figlio dell’uomo va a Gerusalemme dove verrà catturato, condannato e ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Pietro allora gli dice: «Non è possibile». Gesù sbotta: «Vai indietro di me, Satana». Pietro ha vissuto questi due momenti a distanza di un minuto uno dall’altro. Prima la sua fede seguiva Cristo e Gesù gli ha detto: «Beato te». Poi voleva precederlo. Quando noi vogliamo precedere Cristo seguiamo il diavolo. Nessuno può precedere Cristo, neanche il papa. Pietro deve seguire Cristo, non può andare avanti a lui.

La fraternità nasce dal riconoscimento dei fratelli come sacramento di Cristo, come strada attraverso cui il Signore mi insegna la comunione. Che il fratello sia sacramento di Cristo non vuol dire necessariamente che io devo pensare come lui. È sacramento di Cristo perché attraverso di lui il Signore mi richiama a qualcosa che è necessario per la mia vita. Potrebbe essere l’umiltà, la pazienza, il coraggio, una maggiore decisione… chi lo sa.

Che cosa io traggo, specificamente per voi, da ciò che sto dicendo? Vedendo questa vostra vocazione Dio vuole darvi un suggerimento di grande portata e originale: siete chiamati ad essere assieme per lui, necessariamente nel mondo. In fondo è quello che è vero per ogni cristiano: ogni cristiano è nel mondo ma non è del mondo. Essere nel mondo con una speranza più grande, diversa dalle speranze mondane. Penso che non ci sia cosa più grande di questa: lavorare nel mondo (e più nel mondo di un politico non so chi ci sia) senza essere del mondo. È vertiginoso.

Dopo aver parlato di De Gasperi, vorrei qui ricordare Igino Giordani, fondatore dei Focolari insieme a Chiara Lubich. È stato parlamentare ed è una figura interessante da sondare.

La nostra fede è un’esperienza di appartenenza più grande dell’appartenenza politica. Ci dà quella libertà che rende possibile essere presenti, riconoscere i propri errori, ricominciare. Tale esperienza della fede è la realtà meno integralista che ci sia, dà una libertà totale. Voi non siete in un partito per difendere una parte, quand’anche questa parte la volessi chiamare Chiesa. Siete lì perché Cristo vi ha messi lì a lavorare, affinché l’esperienza di umanità che lui ha portato possa essere conosciuta e diffusa nel mondo.

Attraverso le professioni, le passioni, le vocazioni: attraverso come si fa una casa, come si progetta un ponte, come organizzare gli spazi di una città, come dobbiamo muoverci con i migranti, come dobbiamo pensare le autonomie… Tutto questo è assolutamente relativo e assolutamente importante.

Forse nessuno come sant’Agostino ha saputo parlarci di questa libertà del cristiano nell’agone politico, di questa distanza critica del cristiano di fronte a qualunque progetto. Non è una distanza cinica, è la distanza che nasce dalla consapevolezza della relatività di ogni progetto rispetto al Regno e dell’importanza di ogni progetto rispetto al Regno.

Quando Gesù ha detto a Pietro: «Vai nel lago, pesca un pesce e troverai lì la moneta del tuo tributo a Cesare» (Mt 17,24-27), sapeva che Cesare era lontano, eppure la sua distanza critica gli proponeva di obbedire a una legge attraverso la casualità di una moneta nella bocca di un pesce. Aveva una libertà immensa di fronte a Cesare, eppure obbediva. Di fronte al figlio di Dio chi era Cesare? Un moscerino, mentre pensava di essere un elefante. Ma a Gesù interessava testimoniare un livello dell’umano per cui l’uomo obbedisce e nello stesso tempo è libero.

Essere già vincitore: questa è la libertà del cristiano in politica, ma anche nella vita. Cristo ha vinto e io con lui ho già vinto, anche se mi tocca perdere. Come stanno insieme queste due cose? Certamente non con la logica degli algoritmi e neanche con la logica aristotelica. Stanno insieme perché nell’esperienza della fede «tutto è vostro come Cristo è di Dio, se voi siete di Cristo» (1 Cor 3,22-23).

Attraverso la sconfitta o la vittoria di oggi Cristo ci insegna che cosa è decisivo nella vita. Una delle parole che mi diceva Arrigo Sacchi quando ero cappellano del Milan, rivolta ai “pulcini” del Milan che vivevano lì a Milanello: «Fondamentale per un ragazzo che gioca in una squadra è imparare a perdere e a vincere». Saper perdere e saper vincere non è semplice. Vediamo squadre che hanno vinto per anni e poi non sanno più vincere perché sono piene. Molte squadre che hanno perso non riescono a ricominciare a vincere, perché non sono capaci di rinascere. Cristo ci insegna a vincere e a perdere.

4. Alcune strade per la maturità di una fraternità

Dico soltanto i temi di alcuni capitoli. Pregare assieme e meditare assieme, soprattutto i Padri della Chiesa. L’abbeveramento alle fonti della tradizione è essenziale. Oggi vi segnalavo sant’Ambrogio e sant’Agostino. Cercate dei maestri: non si può vivere una fraternità cristiana da parte di persone che vogliono agire in politica se non trovano dei maestri.

E poi studio, studio, studio. Uno dei grandi vuoti del mondo cattolico è che non si è studiato più, si è proceduto come tanti altri attraverso degli slogan. La fatica dello studio della storia, della storia politica, dell’economia: come può uno impegnarsi in politica se non ha studiato e se non conosce questi campi?

Un lavoro senza preconcetti sui temi della politica che sentiamo più decisivi per il momento. Io spero inoltre che si possa arrivare a fare dei tavoli fra di noi, cioè a sederci attorno a un tavolo tra cristiani di diverse militanze politiche, che si possa cominciare a lavorare assieme. Questo oggi non esiste, non c’è nessun dialogo interno alla Chiesa, perlomeno in Italia. Dobbiamo imparare a parlare e a dire come agiremmo, anche se l’altro non è d’accordo. Dobbiamo imparare a non nascondere nulla e non pretendere nulla. A iniziare un cammino.

Potrebbe sembrare utopia, io penso che invece sia la strada necessaria. Sì, è difficile uscire dall’irrilevanza della fede dopo anni e anni. Però quale senso avrebbe per un credente impegnarsi in politica? Semplicemente per essere l’ispiratore di progetti di altri?

Di Massimo Camisasca

Link articolo Tempi:

Camisasca sulla comunione tra i cattolici in politica – Tempi

↑ Torna all’inizio

Articoli Correlati