“Rearm Europe!” Così ha esordito la presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen nel presentare il White Paper, poi rinominato “European Defence Readiness 2030”. Come spesso accade, la comunicazione politica è fuorviante. Gli annunciati 800 miliardi di spesa in armamenti, infatti, non sono vincolanti. È ormai consuetudine dell’Unione Europea approvare misure “volontarie” ed è anche questo il caso. 650 miliardi, infatti, non sono altro che la stima di quanto sarebbe l’investimento se ciascun paese membro decidesse di spendere l’1,5% del PIL (impegno che non aggiunge nulla a quanto già previsto dagli accordi NATO). E i restanti 150 miliardi sono risorse raccolte da obbligazioni europee (in stile Covid, giustificati quindi da condizioni di estrema urgenza, anche per questo il White Paper è abbastanza apocalittico) e dedicati a progetti di investimento in difesa che coinvolgano almeno due paesi membri. Il primo punto da chiarire dunque è questo: nessun piano di riarmo europeo è realmente partito ma più semplicemente la Commissione ha introdotto alcune agevolazioni per investimenti in difesa, inclusa la possibilità di scomputare dal calcolo del deficit questa tipologia di spesa. Nulla di fatto, dunque? Non esattamente. Il tema c’è ed è giusto affrontarlo.
Quando l’integrazione europea è cominciata, 75 anni fa, c’erano ancora 2 milioni di soldati americani in Europa. Da allora, attraverso la NATO, noi europei ci siamo abituati al fatto che la nostra difesa è affare americano. Questa tendenza si è ulteriormente rafforzata in seguito alla conclusione della Guerra fredda: negli ultimi 30 anni gli eserciti europei si sono ulteriormente alleggeriti, facendosi forza dello scudo deterrente degli USA. Gli Stati Uniti da tempo lamentano una scarsa proattività dell’alleato europeo. Fu Obama (non Trump) che nel pieno delle primavere arabe contestò il “free-riding” dei Paesi europei dietro lo scudo militare USA. Fu Trump, nel primo mandato, che liberò il Mediterraneo chiedendo esplicitamente agli alleati europei di fare quadrato nell’area. Dopo anni di alleanza (che talvolta ha fatto rima con “sudditanza”) si era creato spazio di manovra importante: l’instabilità dei Paesi che affacciano sul Mediterraneo, le rotte migratorie illegali e rischiosissime ormai fuori controllo. Purtroppo, non siamo riusciti a coordinarci, a creare iniziative congiunte importanti e fare un passo avanti convincente verso una strategia comune di difesa e politica estera.
Ora che l’atteggiamento estero dell’amministrazione Biden si è rivelato in tutta la sua pochezza, e ci si ritrova una guerra alle porte, ora che l’amministrazione Trump ha fatto sapere di non avere interesse a entrare nello scacchiere europeo ma di concentrarsi su quello pacifico, cosa dobbiamo e possiamo fare?
La mossa, quasi inevitabile, è quella di reinvestire in tecnologie di difesa. Occorre modernizzare gli armamenti, occorre accettare la sfida americana di coinvolgersi nel difficile gioco militare. Non bisogna farlo inseguendo una deterrenza fine a sé stessa, come insegna la dottrina sociale della Chiesa (Compendio CCC, cap. XI, §500 ss.). Né bisogna farlo da soli: sarà necessario continuare a dialogare con gli USA come alleati. Occorrerà chiedere un passo ai Paesi europei che, per diverse ragioni, si sono opposti in questi anni a una tale mossa. In particolare, la Francia, il cui impero, anche quello delle ex-colonie, ormai è tramontato, non potrà più muoversi solo secondo il proprio interesse nazionale andando, come durante la stagione delle “primavere arabe”, contro gli alleati europei, e non potrà più chiedere un ruolo di leadership per il semplice possesso della deterrenza atomica. Ed in particolare la Germania, che per ovvie ragioni storiche ha preferito non prendersi le proprie responsabilità in questo campo. Prima di parlare di difesa comune, non sarebbe il caso di guardare al metodo indicato da Robert Schuman, nel 1950, nel celebre discorso che ha portato alla creazione della Comunità del Carbone e dell’Acciaio? «L’Europa […] sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Vi è una prassi, ormai, di collaborazioni industriali tra Paesi europei che ha portato a grandi risultati. Si pensi alla Airbus, una società partecipata dal governo francese e tedesco che è riuscita a costruire un campione globale nel mercato degli aeromobili. Perché non replicarlo nella difesa? Una tale mossa tanto garantirebbe una capacità di scala nella produzione, quanto scongiurerebbe il rischio (non teorico) che uno stato europeo si appropri unilateralmente del riarmo, e lo usi contro gli alleati.
C’è, però, un tassello mancante: l’Unione Europea dovrebbe investire energie nel tentativo di costruire relazioni internazionali che tengano aperto uno spazio di dialogo. In questi tre anni di guerra l’UE si è preoccupata solo di schierarsi dalla parte “giusta” ma è mancata completamente nel tentativo di costruire un dialogo con la parte “sbagliata”, e la recente nomina di Kaja Kallas ad Alto Rappresentante per l’azione esterna non ha segnato un’inversione di tendenza a quest’approccio. Perché se si vuole fare la pace, coi cattivi – anzi, soprattutto con loro – occorre parlare, altrimenti la guerra non finisce mai. Se San Francesco parlò con il Sultano, una leadership europea che recuperi le proprie origini e la propria identità (inclusa appunto l’eredità francescana) può parlare con Putin. Diversamente, il massimo che possiamo fare è la deterrenza, condizione necessaria ma non sufficiente.
Chi potrebbe parlare con Putin, con Trump o dentro la NATO in nome dell’UE? Qualcuno di cui tutti si fidano, qualcuno il cui ruolo è sufficientemente solido da dare le giuste garanzie a chi gli fornisce una delega così importante. Occorre cominciare a rispondere seriamente a questa domanda ed investire in un ruolo istituzionale di questa portata, che concepisca però un’Unione Europea non più fondata solo sul commercio o sulla rule of law, ma sulla propria storia nata a partire dalla dignità della persona. Perché in nome della dignità della persona ha senso percorrere tutte le strade per la pace; per difendere il commercio, invece, una guerra è più facilmente giustificabile.